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Identità e tutela Val Resia

I funerali in Val Resia

Come per tutte le popolazioni legate ai ritmi naturali anche per i resiani la morte assume un aspetto contemplato nell’esistenza. Essa fa parte di un cerchio che, partendo dalla nascita, momento dopo momento riporta alla terra ciò che la natura ha prodotto.

Per i resiani, sostanzialmente religiosi, la morte rappresenta il momento del trasferimento dal mondo terreno ad un altro e, rapportato al comportamento tenuto in vita, determinerà il premio o l’eterna condanna. Durante l’esistenza, le regole di vita erano scandite giornalmente, ma già alcune preghiere, canti, segni ammonitori stimolavano ad essere preparati per il gran passaggio. Il canto della kujčä (civetta) del ruhühüväz (gufo) nei paraggi di una casa, lo stazionamento diurno del märtäväz (falena notturna) sulla parete esterna di un’abitazione, sogni premonitori, il repentino ingiustificato seccarsi di una pianta atavica, l’ululare dei cani, oggetti che cadendo si rompono, tonfi strani o rumori improvvisi secchi come di rami spezzati erano considerati segnali premonitori dell’arrivo della vecchia signora con la falce in pugno. Il moribondo diventava protagonista involontario della vita paesana. Le visite di parenti e amici divenivano più frequenti e toccavano l’apice quando il sacerdote, accompagnato dal nonzolo e dal chierichetto si recava presso l’abitazione per somministrare tu žihnänë ojë (olio santo). Veniva accesa allora la candela, precedentemente sacralizzata durante la benedizione della Candelora, che, retta da un familiare, restava accesa fino al decesso. Gli amici, i vicini e i parenti si radunavano, intanto, nel cortile per manifestare solidarietà e per contribuire attivamente con le preghiere di rito alla funzione.

A decesso avvenuto si serravano le palpebre al morto perché non ne chiamasse un altro con sé, si chiudeva la bocca da cui con l’esalazione dell’ultimo respiro si era staccata l’anima per il viaggio finale e si provvedeva ad aprire, brevemente, la finestra per agevolare l’uscita dello spirito. Iniziavano, quindi, le operazioni per l’esposizione della salma. Il defunto veniva lavato, se maschio gli si radeva la barba, lo si pettinava e vestiva di un abito nuovo. Generalmente le donne anziane già in vita preparavano l’abito e, addirittura, alcune conservavano anche il nuvyčal (abito da sposa) per la sepoltura. La salma veniva ricomposta sul letto in una stanza, di solito in una camera, con i piedi rivolti verso l’uscio. La parete posteriore veniva addobbata con un drappo nero e ai lati si ponevano quattro candelabri neri. Ai piedi del letto, su un tavolino, venivano collocati due luminelli, una croce, la fotografia del morto e un piattino contenente acqua benedetta e un ramoscello d’ulivo per aspergere la salma. Nel frattempo le campane, suonando la vymäryjä ( ave maria), annunciavano alla popolazione della vallata l’avvenuto trapasso. Paryje (scansione temporale e ritmica del suono) rispettavano un preciso ordine prestabilito. La vymäryjä iniziava con i lamenti lugubri e mesti di tä vlykë śuun (campana grande) alla quale si univano successivamente le altre due. Restava, poi, solo tä malë śuun (campana piccola) alla quale si riunivano le altre due. Tale modalità veniva ripetuta per tre volte. Nell’arco delle tre giornate in cui il morto rimaneva in casa le campane suonavano a mezzogiorno e alle cinque della sera. In base all’importanza della persona deceduta, con particolare riguardo per i padrini e le madrine delle campane, il suono si protraeva. La salma, in ogni caso, non rimaneva mai sola per timore che potessero entrarvi spiriti maligni. I familiari, parenti o amici si alternavano nella veglia badando a ravvivare con l’olio l’accensione dei luminelli. La sera e durante la notte venivano recitati i rosari, le litanie dei morti con l’ora pro eo/ea e sommessamente cantati canti funebri come DOLČ MOJ JEŽUŠ, PUŠLÜŠAJME NU MELÖ e ŚADNJË DIN (dies irae). Chi restava a vegliare veniva rifocillato con cibo e bevande dalla donna di chiave di quei giorni, alla quale i familiari, estraniati da qualsiasi attività quotidiana, avevano affidato il compito di provvedere per l’ospitalità. Si racconta che anticamente, durante gli inverni particolarmente rigidi ed innevati, vuoi per la distanza dei casolari dalla Pieve, vuoi per l’oggettiva impossibilità di scavare la fossa nel terreno irrigidito, i morti venissero ibernati sul solaio o affumicati sul petär (graticcio sistemato sopra il focolare adibito all’affumicamento delle carni per una migliore conservazione) nell’attesa del disgelo. Il giorno del funerale gli amici, i parenti e i conoscenti si recavano presso l’abitazione del defunto per rendere l’ultimo saluto. Venivano fornite candele agli astanti e ai parenti ornate con un fiocco nero. Nell’attesa delle ultime operazioni e della partenza del corteo veniva servita la mośynä (offerta) di vino, acquavite e liquori. Mentre veniva sigillata la bara accadeva di sentire le lugubri lamentazioni di alcune donne vestite di nero che pronunciando il nome dell’estinto ricordavano la vita e le vicende terrene. Appena il feretro usciva dalla camera alcune donne provvedevano immediatamente a girare il letto e ad aprire la finestra per ripulire l’aria stantia e per scongiurare ulteriori lutti. Il corteo si muoveva dalla casa verso la chiesa e verso il cimitero seguendo un ordine ben costituito. Davanti a tutti procedevano un uomo con la croce nera ed un giovinetto con il lumino funereo. Dietro a questi, disposti a coppie per due file parallele i bambini, gli uomini, le ghirlande dei fiori, il prete accompagnato dal nonzolo e dai chierichetti, la bara, portata a spalla o con le žerkle (portantina), attorniata dai cugini del defunto con in mano i ceri addobbati con un fiocco nero, dietro i familiari ed infine le donne. I rintocchi delle campane accompagnavano il corteo lungo tutto il percorso fino al momento della tumulazione. Ultimate le esequie gli affossatori, i portantini, le donne piangenti, i parenti e gli amici più stretti si recavano nell’abitazione del tumulato o presso un ambiente pubblico per consumare il rinfresco, proporzionato alle disponibilità economiche della famiglia. Naturalmente nessuno voleva sfigurare e quindi cercava di accontentare in tutti i modi le richieste degli astanti contraendo anche in qualche caso debito. Alcune informatrici sostengono che anticamente, fuori della porta del cimitero, al termine dei riti venisse distribuito pane cotto per la circostanza. Quest’usanza si è persa nel tempo così come si ha scarsa memoria della distribuzione del bujadnik la focaccia resiana farcita con frutta secca noci e pinoli, cotta per la veglia dei morti. Infatti, i resiani, convinti dell’immortalità dell’anima, credono che gli avi non abbandonino definitivamente la propria abitazione, ma che di tanto in tanto tornino nei luoghi familiari, specialmente in alcune ricorrenze: per i morti, alle quattrotempora, il venerdì santo e nella notte del solstizio d’estate. Vige, infatti, l’abitudine di offrire alle anime, in queste occasioni, acqua, latte, formaggio, pane, elementi vitali per perpetrare la vita anche dopo la morte.

Sergio Chinese H

Informatrici:

Rosina Di Lenardo 1928 - Rina Chinese 1916
Le donne di San Giorgio.
Guido Coss

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