Postato il 16 gennaio 2009
di Laura Sebastianutti
Pubblicato il primo repertorio lessicale di resiano. l’autore non è uno studioso di professione, ma ci ha messo vent’anni a raccogliere oltre 6mila tra vocaboli, nomi, soprannomi, toponimi, neologismi e arcaismi.
Vir vuol dire stagno o lago. Pet ha tre significati, a seconda del caso: bere,
cinque, corsetto. Fadar è il casaro, mentre il basalesk è il serpente, o, nelle
favole, il drago.
Una lingua straniera di chissà quale angolo del mondo? No,
solo resiano. Gli studiosi lo definiscono sloveno pre-letterario, sicuramente fa
parte del ceppo delle lingue slave, ma storia narra che gli zar furono
interessati a territorio, usi e costumi degli abitanti della valle fino a un
secolo fa. Eppure, di questa lingua veramente minoritaria – tra residenti ed
emigranti sparsi in tutto il mondo sono circa 5mila i parlanti – non esisteva
una raccolta organica di vocaboli. Ci ha pensato non un vero studioso, ma un
appassionato con salde origini locali: dopo vent’anni di lavoro e ricerca,
Sergio Chinese ha dato alle stampe il “Repertorio lessicale italiano-resiano”
che si avvale, secondo le moderne tecnologie, anche di un cd-rom dove è
possibile con ancora più facilità recuperare le parole e sentirne persino
scandire la pronuncia.
Cosa ha portato questo sindacalista della Uil Trasporti a raccogliere minuziosamente, per anni, 6mila 500 vocaboli, compresi i nomi e i soprannomi più diffusi? Tutto ha inizio nel 1977, spiega Chinese che è nato, cresciuto e risiede a Prato di Resa, pur essendo “dimorante” a Tricesimo – un po’ come accade per tutti i valligiani che non si staccano mai veramente dalle loro radici: «All’epoca ero presidente del coro Monte Canin di Resia e quando divenne direttore del sodalizio Antonio Colussi, pensammo che sarebbe stato interessante eseguire i canti resiani. Ma non esisteva nulla di scritto, anzi, serviva persino una grafia corretta per trasferire su carta ciò che raccoglievamo oralmente sul territorio». Alla fine, i primi spartiti furono pubblicati solo nel 1991, tale tanto fu il lavoro di recupero e trasposizione.li studi sul resiano. Da quel momento ho cominciato una raccolta massiccia di parole che si è conclusa solo nel 1995-’96».

La necessità di una traduzione veloce, soprattutto dall’italiano al resiano, racconta Chinese, era sentita da molti. E la soluzione migliore, per lui che non è uno studioso di professione e non si trova nella possibilità di creare un vocabolario vero e proprio, è sembrata subito quella del repertorio. «Serviva qualcosa di immediata lettura, una raccolta, appunto, che potesse mettere ordine nel marasma di parole utilizzate normalmente anche da chi scrive in resiano. Io stesso avevo difficoltà a raccapezzarmi, quando mi servivano dei termini. Per non parlare di tutti coloro che risiedono in varie parti del mondo e che oggi si tengono in contatto scrivendosi via Internet».
Ma Sergio Chinese, dall’impronunciabile soprannome di famiglia Hugjöu (e la g andrebbe con un accento acuto), ha voluto andare oltre: «Ho completato il lavoro registrando, su un cd rom allegato al libro, la pronuncia dei suoni perché le parole potrebbero avere due o tre diversi significati che variano in base all’accento». Come nei migliori corsi audio di inglese, insomma. Per i puristi, va detto che Chinese pronuncia nella variante “ibrida” di Prato, una sorta di koinè resiana: la valle conta, infatti, quattro varianti, riferite ai quattro antichi comuni, cioè San Giorgio, Gniva, Oseacco e Stolvizza. Prato nel 1700 era il centro amministrativo ed economico di tutta la valle e nel suo territorio vi si sono fuse le quattro parlate, creando una sintesi, un linguaggio che andasse bene a tutti. «Per la precisione, io parlo secondo la cadenza di Lipovaz, una borgata di Prato», sottolinea l’autore. E non è una questione di lana caprina: pare che gli accenti si modifichino da famiglia a famiglia. “Peggio” del friulano, dunque.
Come ha risolto questo studioso sul campo il problema annoso della grafia? «Ho adattato i segni alle conoscenze grafiche italiane dei resiani di oggi, sforzandomi di trascrivere i fonemi il più fedelmente possibile, ma a seconda delle epoche storiche cui potevo far risalire il vocabolo, ho adottato la grafia che andasse bene». Anche se non esaustivo, in questo senso l’ideale sarebbe stato l’adozione dell’alfabeto sloveno, ma Chinese ha cercato di rendere la lettura possibile pure a coloro che non lo conoscono.
E per quanto riguarda i contenuti, l’autore ha aggiunto al lessico i soprannomi di famiglia, i toponimi, i nomi propri di persona, i neologismi entrati nell’uso comune come gli arcaismi recuperati, leggendo, a questo fine, tutti gli scritti esistenti dal 1800 a oggi. Ha tenuto conto poi dei prestiti che se da occidente provenivano dal friulano e dall’italiano – grazie anche al legame con l’Abbazia di Moggio e allo sbocco del fiume che permetteva scambi commerciali –, da oriente, passaggio di contrabbandieri, erano direttamente influenzati dalla lingua slovena. «La valle faceva da cuscinetto tra due mondi: sarebbe interessante verificare gli apporti di quello latino da un lato e slavo dall’altro».
Al lavoro di raccolta di Chinese ha contribuito molto lo slavista olandese Han Steenwijk, docente all’Università di Padova, da sempre interessato allo studio del resiano al punto da parlarlo oggi correntemente. È lui che nel Repertorio fa il punto dei dizionari resiani, ricordando come ancora a fine Ottocento gli zar di Russia inviassero i loro studiosi nella piccola vallata a studiare quel popolo e la sua lingua. «Con la mia ricerca ho cercato di aprire un piccolo sentiero, ma vorrei che adesso ognuno potesse aggiungere un pezzo nuovo al mosaico della cultura resiana. Deve essere la gente a creare qualcosa che rimanga nei secoli», è in sostanza il messaggio di Chinese presso il quale si può reperire il libro (oppure è disponibile rivolgendosi al coro Monte Canin). Infine, l’autore lancia un appello: «La legge di tutela delle lingue minoritarie rischia di far sparire il resiano perché non è considerato un’entità a sé, ma viene fatto confluire nello sloveno. Usi, costumi, tradizioni e lingua rischiano di essere omologati, ma sarebbe un errore perché noi e loro non ci capiamo, non siamo la stessa cosa. E il pericolo è che già così, con le nuove generazioni che lo parlano sempre meno, entro 20 o 30 anni al massimo del resiano non rimanga più traccia».
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